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Tenshug, la preghiera della lunga vita per Sua Santitа il Dalai Lama.

Il monsone sembrava non finire mai. Le piogge cadevano senza sosta e le strade erano distrutte. Nell’aria si mescolavano i profumi intensi di spezie e incensi, mentre il suono dei clacson si confondeva con il tintinnio delle ruote delle preghiere. Attorno a me, un miscuglio di vite e colori: indiani e tibetani, turisti spirituali e hippie, scimmie e mucche che vagavano tranquillamente per le strade.

Era il 6 ottobre 2025, a Dharamsala, in India — il giorno per cui ero arrivato dall’Italia. Ero lì per un motivo preciso: rappresentare la comunitа tibetana in Italia e partecipare al Tenshug, la preghiera della lunga vita per Sua Santitа il Dalai Lama.
Il Tenshug è una cerimonia profondamente legata alla religione e alla cultura tibetana, durante la quale studenti e discepoli offrono preghiere al proprio maestro, augurandogli una vita lunga e libera da ogni male e ostacolo. Io ero lì per portare gli auguri di tutti i tibetani che vivono in Italia.

L’8 ottobre 2025, giorno della cerimonia, il mio cuore batteva fortissimo. Ero dentro il monastero Tsuglhakhang, pieno di emozione e di ansia. Le preghiere erano già iniziate, ma Sua Santità non era ancora arrivato. Avevo un posto alla destra del trono dove avrebbe preso posto.
Eppure, dentro di me, cercavo egoisticamente un posto migliore: volevo vederlo più da vicino. Mi sentivo come un bambino davanti a una telecamera, immaginando di dire a mio padre: “Papà, mi hai visto? Sono vicino a Sua Santità!”
Per un padre profugo tibetano, vedere il proprio figlio rappresentare la comunità tibetana è motivo di immenso orgoglio.

Guardavo la diretta sul grande schermo e, a un certo punto, vidi Sua Santità uscire dal cancello del suo palazzo.  Camminava lentamente, accompagnato da due monaci. Si percepiva la sua anzianità dal passo incerto, ma il suo viso era sereno, pieno di luce, e regalava sorrisi a tutti.
Un gruppo di ballerini tibetani lo accolse con danze e strumenti tradizionali, intonando canti di benvenuto. Tutti cercavano di avvicinarsi, nella speranza di ricevere un suo sguardo o una benedizione; alcuni, più fortunati, ci riuscirono davvero.

Più mi avvicinavo, più notavo la sua fragilità. Non riusciva a salire sul trono da solo: fu aiutato dai suoi assistenti e da una piccola piattaforma elevatrice. Una volta salito, come sempre, salutò tutti con i suoi sorrisi caldi e rassicuranti.
Dopo qualche minuto, chiese un pezzetto di cioccolato con la sua solita ironia. Tutti risero, ma quel sorriso durò poco: all’improvviso iniziò a tossire. La telecamera non riprese quel momento, ma la tosse durò diversi minuti e mise in allarme tutti i presenti. I monaci gli portarono acqua e medicine, ma la preoccupazione era palpabile. Poi, lentamente, tutto si calmò. Sua Santità riprese le preghiere con serenità, come se nulla fosse accaduto.
Io tirai un lungo sospiro di sollievo. “Menomale…”, pensai.

La parola Tenshug significa “vivere per sempre”. Ma, in realtà, questo è impossibile.

Per chi segue la filosofia buddhista, l’impermanenza è la verità fondamentale dell’esistenza. Anche se noi tibetani — e molti di coloro che considerano Sua Santità il proprio maestro — lo veneriamo come la reincarnazione di Avalokiteshvara, il Buddha della Compassione, egli resta comunque un essere umano. E, come ogni essere umano, non può sottrarsi alle quattro sofferenze: la nascita, la vecchiaia, la malattia e la morte.

Tuttavia, per noi tibetani, il legame di purezza e di fede tra maestro e discepoli è essenziale per la salute e il benessere del maestro stesso.

 

Vedere Sua Santità così anziano, a novant’anni, mi ha spezzato il cuore.
Non tanto per la sua età, ma per la rabbia e la malinconia che provo verso un mondo egoista, che ha dato così poco a un uomo che ha donato tutto di sé.
Ha dedicato la sua intera vita non solo alla libertà del suo popolo e del suo Paese perduto, ma anche al bene dell’umanità intera, diffondendo instancabilmente amorecompassione e non violenza.

Quando sento paragonare Sua Santità a figure come Nelson MandelaGandhi o Martin Luther King, penso che tutti loro, in vita, hanno visto realizzati i propri sogni di libertà e giustizia.
Il Dalai Lama, invece, rischia di lasciare questo mondo senza aver visto il suo popolo tornare a casa.

E ciò che mi addolora ancora di più è sapere che potrebbero esserci due quindicesimi Dalai Lama: uno scelto secondo la tradizione tibetana, e l’altro imposto dal governo comunista cinese, con la forza e la propaganda.
E il mondo, quello stesso mondo che parla di pace e non violenza, resterà a guardare — o, forse, appoggerà il potere più forte.

Il mondo ha usato l’immagine di Sua Santità per guadagnarsi visibilità: medaglie, cittadinanze onorarie, lauree ad honorem, premi di ogni genere. Ma nessuno ha mai sostenuto davvero la sua causa, né quella del suo popolo.
La questione tibetana è rimasta dimenticata.
Un popolo rischia di scomparire nel silenzio generale.

E così, mentre migliaia di persone scendono in piazza per la pace e contro la guerra, pochi ricordano che esiste un popolo che da decenni lotta senza armi, solo con la forza della non violenza.
Se il Tibet dovesse scomparire, non sarebbe solo la fine di una nazione, ma la perdita di un’ideologia di pace e compassione che il mondo non ritroverà più.

Ora sono tornato in Italia, ma dentro di me è rimasto qualcosa.
Non so se chiamarlo pauraansia o tristezza. So solo che, presto o tardi, arriverà la notizia che nessun tibetano vorrebbe mai sentire.
E allora il mondo applaudirà, lo celebrerà come “simbolo di pace”…
senza capire che, forse, con lui, se ne sarà andata anche una parte della pace stessa.

Sonam Dorjee

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